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Epatite C: come si trasmette, come si cura


La scoperta del virus dell’epatite C è relativamente recente ( 1989). L’infezione causata da questo virus rappresenta una delle più comuni cause dell’epatopatia cronica in molti Paesi, tra i quali gli Stati Uniti d’America.


Il virus dell’epatite-C è un membro della famiglia delle Flaviridiae, che include anche i virus della febbre gialla e del Dengue. Il virus è un virus ad RNA di circa 9.500 nucleotidi, in cui sono presenti le due glicoproteine, E1 ed E2.
Sono stati individuati 6 principali genotipi, che sono contraddistinti dai numeri compresi tra l’1 ed il 6.
Il virus dell’epatite C si trasmette per via parenterale.
I principali fattori di rischio per l’Epatite C sono: la somministrazione endovenosa di droghe, uso della cocaina per via nasale, piercing, tatoo e le ferite o le punture accidentali.
Fino ai primi anni 90 anche le trasfusioni di sangue rappresentavano un fattore di rischio. Rimane controversa invece la trasmissione dell’epatite C per via sessuale. Probabilmente è responsabile del 5% di questa infezione.
Le donne infettate dal virus possono trasmetterlo al momento del parto al figlio, ma il fenomeno è piuttosto raro ( 3-5%). Il taglio cesareo sembra ridurre di molto la trasmissione prenatale del virus dell’epatite C.
Circa il 15-30% dei pazienti esposti al virus dell’epatite C guariscono, mentre gli altri vanno incontro alla malattia in forma cronica. E tra questi ultimi nel 15% si manifesta cirrosi epatica.
A favorire la progressione ( cronicità) dell’infezione contribuiscono l’abuso di alcool, l’acquisizione della malattia in età inferiore ai 40 anni, il sesso maschile, la contemporanea infezione con virus dell’epatite B o con HIV.
La maggior parte dei pazienti colpiti da infezione da virus C risulta asintomatica. Le persone sintomatiche invece manifestano: senso di stanchezza, dolore addominale, riduzione dell’appetito, perdita di peso e prurito.
L’obiettivo della terapia dell’epatite C è quello di rendere non rintracciabile l’RNA del virus a 6 mesi dopo l’interruzione della terapia. Ed in secondo luogo, migliorare la qualità della vita.
Trovano impiego nella terapia antivirale: Interferone-alfa-2a, Interferone alfa-2b, e l’associazione Interferone alfa-2b + Ribavirina.
La monoterapia con Interferone è il primo step terapeutico per l’infezione da virus C e per coloro che non tollerano la terapia di associazione.
L’impiego dell’Interferone non è scevro da effetti indesiderati. Il più importante è la malattia simil-influenzale, che si presenta di norma nelle prime 4 settimane di trattamento e che si risolve spontaneamente.
In seguito si possono presentare senso di stanchezza, cefalea, e disturbi neuropsichiatrici, tra cui la depressione. Con una minore incidenza si possono anche presentare: ipotiroidismo, ipertiroidismo, artralgie, rash, alopecia reversibile. La terapia di associazione ( Interferone alfa-2b + Ribavirina) si è dimostrata più efficace rispetto alla monoterapia. I principali fattori che predicono l’efficacia della terapia di combinazione sono: genotipo 2 o 3, carica virale inferiore a 3,5 milioni di copie/ml, sesso femminile, età inferiore ai 40 anni.
I più comuni effetti indesiderati della Ribavirina sono: anemia, depressine, senso di stanchezza, irritabilità, rash, tosse, respiro corto, insonnia.
L’anemia si presenta in tutti i pazienti trattati con Ribavirina. Pertanto la Ribavirina deve essere usata con cautela nei pazienti con preesistente anemia, diabete o coronaropatia.
La Ribavirina è teratogena. Molti pazienti dopo trattamento antivirale diventano resistenti alla terapia. Questo rappresenta un serio problema di ordine terapeutico.
Nei casi di resistenza alla monoterapia con Interferone si passa di norma all’associazione con Ribavirina. Si sta sperimentando il PEG-Interferone nel trattamento dell’infezione del virus dell’epatite C.
La spiegazione della pegilazione ( cioè aggiunta di PEG all’Interferone) è quello di aumentare la durata dell’azione dell’Interferone.


Carlo Franzini

Xagena2001


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